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martedì 22 luglio 2008

Prisco De Vivo: "L'oscuro fiore dell'arte"

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Prisco De Vivo


L'oscuro fiore dell'arte

Conversazioni con Enzo Rega
e Pasquale Gerardo Santella

Prefazione di Vincenzo M. Frungillo

con disegni e foto di Prisco De Vivo

IL LABORATORIO/Le edizioni, Nola (Napoli) 2007


I n d i c e


La bottega dei fantasmi
(di P.G. Santella)

Nomina et res
(conversazione con P.G. Santella)
Le ceneri della memoria
(conversazione con P.G. Santella)
La terribilità nell'arte
(conversazione con P.G. Santella)
L'oscuro fiore dell'arte
(di E. Rega)
Esistenzialismi, eternità dell'arte, filosofia e debolezze
(conversazione con E. Rega)
Arte, esistenza e malattia
(conversazione con E. Rega)

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"Lo scandalo irrisolto del corpo sembra essere oggi la questione fondamentale. Si potrebbe dire, rubando alla psicologia una sua cara espressione, che la somatizzazione del dolore e la mancata somatizzazione del dolore sono gli attuali dilemmi della filosofia, della poesia, dell'arte e della politica. Come per un'ulteriore rivoluzione copernicana, non più razionalistica ma carnale, l'uomo crede di dover trovare il proprio centro nelle membra; la domanda che lo sostiene ha il tono dello stupore: in un'ipersemiosi simbolica e visiva, cosa farsene ancora di questo busto? questo tronco, questo volto, queste mani? Cos'è il corpo e cosa sono i suoi sintomi, in un mondo che tenta di sollevarsi da terra, che tenta di anestetizzarsi nella visione virtuale della vita? L'oscuro fiore dell'arte, questo singolare libro d'arte e di pensiero a tre voci, nel suo incedere ermeneutico, nel suo procedere dialogante con le immagini del pittore De Vivo, sembra toccare questo centro problematico; le serie pittoriche dell'artista, le foto delle sue sculture, sembrano essere analizzate dagli interlocutori Rega e Santella proprio tenendo lo sguardo fisso su questo snodo cruciale".

dalla Prefazione di Vincenzo M. Frungillo


L’oscuro fiore dell’arte


L’arte, quando è vera arte, deve avere il coraggio dell’azzardo e della scommessa. Un colpo di dadi nel quale si gioca l’incontro-scontro fra lo sguardo dell’artista e l’occhio dello spettatore: e i loro rispettivi sistemi psico-nervosi. Così i volti e i corpi tormentati delle opere di De Vivo (ricordando, anche se con diverso intervento grafico e cromatico, Francis Bacon) non possono non “urtare” la suscettibilità, la sensibilità dello spettatore addomesticato dal tranquillo estetismo del soporifero bombardamento massmediatico. La sua – inutile sottolinearlo – non è un’estetica del bello. Ma, a distanza di un secolo, l’artista savianese ha il coraggio, perché si tratta di coraggioso gesto artistico, di riproporre reiteratamente – di nuovo, e ancora di nuovo – la bocca spalancata dell’Urlo di Edvard Munch. Ma l’arco di quelle labbra, passato attraverso tutto l’arco del Novecento “secolo breve” (così breve perché di troppi orrori pieno, oltre che di progressi che non sono bastati a evitare quegli orrori) ha finito per significare – è diventato – in De Vivo il buco nero del forno crematorio di Auschwitz.
Ma, poi, ancora, nella sua arte, un imbuto ha chiuso quell’apertura orale, per costringere a ingurgitare pietre, facendo passare dentro di noi, incorporandoli, gli orrori di una vita che – sartrianamente – non abbiamo scelto.
Ma, come segno, pure questo imbuto, che in altri casi diventa copricapo (è direttamente sul cervello che vogliono intervenire i persuasori più o meno occulti), viene da lontano: proprio come copricapo lo ritroviamo in Bosch.
Come da lontano viene l’altro riferimento dell’uovo (addirittura da Piero della Francesca), sospeso sulla testa delle figure rappresentate o, addirittura, nel caso delle sculture, posto a gravare direttamente sul capo (al posto dell’imbuto). Uovo primigenio, simbolo del brodo primordiale o dell’anassimandreo apeiron (sia nell’etimologia che lo voglia significare “infinito” o in quella di derivazione accadico-sumerica per cui starebbe per “fango”) delle origini (col quale il mondo greco classico – fermo restando la prima etimologia – intuì, precedendo Giordano Bruno, il fascino e l’angoscia degli spazi e dei tempi infiniti ed eterni). Ma allora qui De Vivo scarta dal ripiegamento su un definitivo e nichilistico pessimismo. Se l’imbuto era lo sprofondare nel gorgo, l’uovo è la possibilità della rigenerazione, di una psicodinamica seconda nascita.
Una esigenza di salvezza si presenta nell’opera di Prisco. Le sue figure giacomettiane si collocano sotto ombrelli, prima neri e poi rossi, dunque colorati: e qui il pittore sembra riprendere quella ricerca del colore che aveva caratterizzato l’espressionismo originario, e che si era offuscato in neoespressionisti come Miquel Barcelò e in Martin Disler – per riemergere però nella ricerca di Baselitz. Era il mondo che sembrava sempre più inghiottire la luce per non più restituirla, uniformandosi in grigi e neri. Ora, invece, di nuovo l’irruzione del colore per quegli ombrelli, che sono forse anche ripari, forse cupole di una qualche chiesa sotto la quale, kierkegaardianamente, gli uomini sono spinti dall’angoscia: riscatto e redenzione sono esigenze esistenziali ma non ancora conquiste definitive. Come per il filosofo Walter Benjamin, teso fra teologia e utopia, e stroncato dal peso senza rimedio della realtà.
Ma dalla natura, forse spiritualizzata, l’artista De Vivo, appassionato bruniano, cerca qualche risposta. Alcune sue sculture, come tronchi di legno abbruciati, sembrano nascere dalla terra per diventare, in una accelerazione darwiniana, teste di uomo, anche se ancora petrose. Marcusianamente, all’arte si affida un compito di riscatto rispetto alla banalità del male, ma ciò avviene nel mondo ancora confusamente. Perciò, questa pianta dell’arte, questo fiore è oscuro: il tronco da cui nasce e di cui si nutre è nero di fumo.


Enzo Rega


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